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BOZZARINI PROJECT

ANDREA BASSO

Introduzione

Dopo aver letto gli interventi di Valerio Bozzarini e Roberto La Rocca, mi sono sentito in dovere di esprimere la mia opinione sui possibili scenari futuri del football americano in Italia. In realtà, è da molto tempo che sviluppo queste idee, ma prima d’ora non avevo mai considerato di renderle pubbliche.

Per prima cosa, vorrei presentarmi, perché:

Mi sono avvicinato al football come giocatore nel 1996, ma gradualmente il mio interesse si è spostato verso gli aspetti organizzativi e dirigenziali, anche per motivi di forza maggiore, se si considera che nella mia città (Genova) non era presente una squadra. Nell’autunno del 1998, insieme ad un coraggioso gruppo di amici, ho fondato i Genova Black Rays. Dopo la partecipazione alla Winter League 1999, nell’autunno del 2000 ho lasciato la carica di Presidente ad Eugenio Maliscev, che ha avuto il merito di coltivare e far crescere il “seme” da noi piantato, tanto è vero che gli Squali Genova (la squadra è infatti tornare al nome legato alla tradizione) hanno recentemente vinto la prima edizione della Northwestern Conference.

La mia decisione di abbandonare l’attività dirigenziale è stata causata dai seguenti motivi:

D’altra parte, avevo ormai capito di volere trasformare la mia passione per lo sport in una carriera. Quindi, ho lasciato la facoltà di Ingegneria di Genova e mi sono spostato a Lucca, per studiare International Business and Finance, con specializzazione in Sport Management presso la European School of Economics.

Attualmente mi trovo a New York, dove resterò fino all’inizio di settembre per proseguire i miei studi. Ho recentemente terminato di frequentare il “2002 Summer Institute in Sports, Events and Entertainment Marketing” della New York University, che si va ad aggiungere a corsi mirati che ho seguito in Italia (Psicologia dello Sport, Sociologia dello Sport, Diritto dello Sport), e all’esperienza pratica maturata con internships presso aziende del settore (Venicemarathon e ActiveEurope.com).

Le materie coperte dal corso hanno spaziato dalle sponsorships al merchandising, dagli aspetti legali alla rappresentazione di atleti, e le lezioni sono state tenute da persone che lavorano quotidianamente all’interno dello Sport Business (alcuni esempi: Rusty Hawley, Vice President Marketing, New York Giants; Clay Walker, Senior Vice President, Players Inc.; Keith Ritter, President, NHL Interactive Cyber Enterprises).

Alla parte teorica si è aggiunta una visita pratica e dettagliata ad alcuni impianti di riferimento (Giants Stadium, Madison Square Garden, US Tennis Association Center).
Fra parentesi, consiglio caldamente questo corso a tutti coloro che vogliono avere un approccio professionale al mondo dello sport.

Mi scuso per essermi dilungato a descrivervi il mio profilo, ma credo che fosse assolutamente necessario, visto il taglio specifico che ho deciso di dare al mio intervento.

Un approccio alternativo e provocatorio: il prodotto football

La situazione attuale è già stata descritta adeguatamente da Valerio, ed è peraltro nota a molti, quindi ritengo che non sia necessario soffermarsi ulteriormente sulla sua analisi.
Le diverse proposte che sono state presentate sono concettualmente valide, ma sono “tradizionali” e non si discostano molto da quello che si è cercato di fare, con risultati non sempre positivi, in passato.

Per questo motivo ho scelto di adottare un approccio completamente diverso e provocatorio.

Più volte ho sentito parlare, all’interno del forum di Huddle, di media (TV e stampa), sponsors, NFL Europe ed altri argomenti relativi all’aspetto economico e promozionale del football italiano. Purtroppo, fino ad ora non ho mai letto nessun intervento che abbia centrato il punto della situazione.

Lo sport è un business, e come tale va gestito. Questa è la realtà dei fatti, che piaccia o meno. Se non vi sta bene, potete prendere il pallone e andare a giocare nel prato dietro casa.

Di conseguenza, anche il football americano è un prodotto, che va commercializzato rispettando le tradizionali regole del marketing, come se fosse un bene di consumo o un servizio. Ma il football in Italia, allo stato attuale, non è un prodotto appetibile per nessuno: tifosi, potenziali atleti, media e tantomeno sponsors.

Poiché, in futuro, nessuna entità sportiva potrà più fare affidamento su contributi provenienti dal CONI, è evidente che per la sopravvivenza e la crescita dovranno essere reperite fonti alternative di entrate, ovvero sponsors privati. Personalmente, ritengo che il problema economico sia particolarmente importante perché, per esperienza, può condizionare pesantemente le scelte di una squadra di football americano di recente formazione o desiderosa di crescere.

Quindi, mi sembra quantomeno utopistico preparare un programma per la ricostruzione del sistema football in Italia senza prendere seriamente in esame l’argomento marketing e sponsorships. Tuttavia, non ci si improvvisa a preparare proposte di sponsorship: bisogna avere il know-how necessario e padroneggiare le regole del gioco, che è duro e spietato.

Con tutto il rispetto per la passione e l’impegno che il presidente Cantù (a cui vanno riconosciuti diversi successi, tuttavia) dedica a questo sport, non basta una presentazione PowerPoint e il famoso post “Allacciate le cinture: il football decolla” per far sì che gli sponsors corrano a coprirci di soldi, come se fossero i tre Re Magi!

Nessuna azienda è disposta a sponsorizzare se non intravede la possibilità di un ritorno concreto e misurabile. I tempi delle “donazioni a fondo perduto” sono finiti: la parola chiave è ROI.

Ricetta per il fallimento: più squadre, solo football a 11

Continuo con la mia provocazione. Molti sostengono che bisogna aumentare il numero di squadre e convincere tutti a giocare solo il football a 11. Questa è la cosa più stupida che si possa fare.

Aumentare indiscriminatamente il numero di squadre e costringere tutti a giocare ad 11 vuol dire peggiorare ulteriormente (se possibile) la situazione ed annientare la qualità (dire che è già scarsa è un eufemismo) in maniera totale e definitiva.

È evidente che l’obiettivo a lungo termine deve essere quello di avere un maggior numero di squadre che giocano a 11, ma questo risultato deve essere conseguito con passaggi graduali, che consentano non solo di aumentare le squadre, ma anche di garantire equilibrio, qualità ed uniformità, sia sotto l’aspetto sportivo, sia sotto quello dirigenziale e gestionale.

Segmentare il mercato, sviluppando diversi prodotti, è una soluzione molto più logica, dal punto di vista del business.

Estremizziamo il concetto. Se qualcuno mi chiedesse di preparare una proposta di sponsorizzazione per la Golden League, gli risponderei che non ho voglia di sprecare il mio tempo. Al contrario, in un’ora potrei tirare fuori diverse pagine di idee sfruttabili per vendere il Fiveman o il Flag Football.

Mi spingo oltre. La nazionale non rappresenta una risorsa, perché non è facile da vendere. I successi dei Lions (a cui vanno i miei sinceri complimenti) non mi interessano, perché rappresentano un’anomalia, non la norma. Anche facendo una banale media del livello qualitativo del football italiano, il contributo dei Lions sarebbe minimo, quando si analizza il panorama complessivo del movimento. Per di più, la supremazia dei Lions rappresenta un problema sotto l’aspetto agonistico, perché annulla qualsiasi possibilità di avere un campionato equilibrato.

L’esempio americano

Cerchiamo, per una volta, di imitare in maniera intelligente quello che è stato fatto in America.

Qual è la forza della National Football League?

La vera forza della NFL è quella di anteporre il concetto e l’importanza della lega agli interessi della singola squadra. Tutto l’operato della NFL è teso a consolidare la lega ed a garantire equilibrio e spettacolo. L’introduzione della free agency e del salary cap ha drasticamente cambiato gli equilibri storici del footbal, mettendo fine, probabilmente per sempre, alle dinastie e ai franchise players. Questa evoluzione del football può anche non piacere ed essere criticata dai puristi, ma, dal punto di vista economico, è un completo successo.

Altro esempio pratico di come la strategia dell’equilibrio sia stata implementata dalla NFL: gli expansion teams.

Storicamente, le squadre di espansione hanno impiegato anni prima di diventare competitive, avere stagioni con record vincente ed accedere ai playoffs. Questo avveniva perché, in maniera più o meno palese, le altre squadre ostacolavano il team: expansion draft ridicoli (giocatori scadenti, atleti anziani con carriera praticamente finita), tempi molto ristretti fra la creazione della franchigia e la partecipazione al campionato, ecc.

La tendenza è drasticamente cambiata negli anni ’90, quando sono stati introdotti i Jacksonville Jaguars ed i Carolina Panthers. Per la prima volta, le squadre di espansione sono state messe in condizione di costruire un progetto sportivo valido, tanto è vero che, dopo una prima stagione interlocutoria (ma comunque accettabile), entrambe le squadre hanno raggiunto la finale di conference l’anno successivo.

In maniera ancora più evidente, agli Houston Texans è stata veramente fornita la possibilità di essere vincenti fin dalla stagione di esordio: il tempo a disposizione del management e del coaching staff per prepararsi non solo al campionato, ma anche all’expansion draft, è stato estremamente ampio (Charley Casserly è stato nominato GM nel gennaio 2000, e Dom Capers è stato scelto come Head Coach nel gennaio 2001). Inoltre, la rosa di giocatori fra cui i Texans hanno potuto scegliere nell’expansion draft è stata estremamente qualificata: un nome su tutti, Tony Boselli.

Facciamo un’ulteriore considerazione. Come vengono gestiti dalla NFL gli introiti provenienti dalla vendita dei diritti televisivi e da merchandising e licensing? Vengono equamente distribuiti tra le 32 squadre. Questo vuol dire che Green Bay – che rappresenta un mercato di dimensioni e potenzialità assolutamente irrisorie – riceve una “fetta” uguale a quella dei Giants, che hanno a disposizione tutto il bacino di utenza di New York. Senza questa politica, non ci sarebbe la minima possibilità di conservare la franchigia del Wisconsin, solo facendo affidamendo sulla lealtà dei tifosi. Discorso analogo per i Cleveland Browns, che con le loro divise anni ’50, guadagnano tanto quanto i Tampa Bay Buccaneers (per fare un esempio di una squadra che vende parecchio merchandising, a giudicare da quello che posso vedere in giro qui a New York).

A proposito di divise: il processo di rinnovamento di uniformi e loghi è supervisionato dalla NFL, non è a totale arbitrio della squadra. La NFL si occupa di garantire standard minimi di qualità in ogni aspetto, sportivo e manageriale.

Abbandoniamo la NFL e passiamo al football ad 8, ovvero alla AFL. L’Arena Football League rappresenta un esempio perfetto di “prodotto” sportivo disegnato specificamente per andare a soddisfare le esigenze del consumatore. Tramite quello che si può capire tramite Internet, avevo già avuto la sensazione che la AFL costituisse un eccellente modello di marketing. Assistere da vivo ad una partita (New York Dragons vs New Jersey Gladiators – guidati da Jay McDonagh, campione italiano con i Phoenix San Lazzaro nel 1997- al Nassau Veterans Memorial Coliseum) ha confermato in pieno le mie idee. Il management AFL ha sviluppato un programma solido, basato sui piccoli passi e su decisioni ineccepibili dal punto di vista del business. Il fatto che la NBC abbia acquistato i diritti televisivi della AFL a partire dalla stagione 2003, ne rappresenta la definitiva consacrazione.

Mi permetto di fare notare – a conferma di quanto detto in precedenza – come la AFL abbia scelto di identificare diversi segmenti di mercato da colpire, rispettivamente con la AFL e la AFL2.

Un ultimo appunto, prima di passare alle conclusioni: il fallimento della XFL è stato dovuto non tanto alla strategia di marketing, ma all’incapacità di implementare un rapporto costruttivo con i media. I giornalisti sono stati trattati come se fossero degli incompetenti che non avevano mai visto una partita di “vero football” prima di allora. Per reazione, i media hanno snobbato la XFL e ne hanno determinato la prematura fine.

Dagli USA all’Italia

Cosa si può applicare al football italiano – con le dovute proporzioni – di quello che abbiamo visto negli USA? Che conclusioni e suggerimenti possiamo ricavarne? Quelle che seguono sono alcune delle idee che considero plausibili.

Quando assisto ad un evento sportivo, dal vivo o in televisione, l’atto agonistico in sé rappresenta l’ultimo dei miei interessi. Preferisco concentrarmi sul posizionamento della pubblicità, individuare gli sponsors, la loro importanza e il loro impatto sull’evento, cercare di individuare pregi e difetti nella produzione dell’evento, ecc.

Chiaramente si tratta di una deformazione professionale, e, probabilmente, molti di voi riterranno che io sia rincoglionito se mi perdo un touchdown pass mentre conto il numero dei pannelli pubblicitari sulla sideline. Può anche essere vero, ma sono quei pannelli pubblicitari che permettono che l’evento abbia luogo.

Per questo motivo, l’evento stesso deve essere ideato, pianificato e prodotto per soddisfare le esigenze degli sponsors. E questo è particolarmente valido quando l’evento non ha un peso particolare da mettere sul piatto della bilancia al momento di negoziare un contratto.

Quando ci si prepara a vendere un’opportunità di sponsorizzazione ad un’azienda, la prima cosa da fare è fare un inventario di quello che si può offrire. Qualcuno si è mai preso il disturbo di fare un inventario di quello che il football americano può offrire?

Esempio pratico. Quanti contatti mensili ha Huddle.org? Quanti contatti mensili ha Fiaf.net? Perché disperdere potenzialità se Huddle.org è diventato virtualmente l’organo di comunicazione ufficiale del football italiano? Perché le squadre devono avere un sito indipendente e non possono invece avere una sezione dedicata all’interno del sito Fiaf? Dove sono gli sponsors? Ho visto che è stata fatta la diretta Internet per l’Eurobowl. Benissimo. Quanti contatti ci sono stati? Dov’era lo sponsors? Perché non c’era?

Conclusione

Questo mio intervento non ha nessuna pretesa di essere un programma esaustivo. Vuole semplicemente essere uno spunto di discussione, volutamente provocatorio ed anticonvenzionale.

Quello che mi auguro è che ci sia un feedback da parte degli addetti ai lavori e dei semplici appassionati a questo mio intervento.

Cercherò, se possibile, di dare un seguito a questa prima serie di idee, esposte in maniera sommaria e non troppo organizzato, e di espandere alcuni concetti che in questa sede ho semplicemente introdotto.

Forse potrà sembrare che io abbia concentrato l’attenzione esclusivamente sull’aspetto economico, ma qualsiasi progetto è determinato da 5 parametri interdipendenti: obiettivo, qualità, costo, tempo e risorse.

Le risorse possono essere: persone, facilities (si può tradurre con impiantistica, anche se non rende completamente il concetto), equipaggiamento, denaro e materiali. Tuttavia, tutte le risorse possono essere ridotte ad un costo economico.

Concludo riportando un breve passaggio di Roberto La Rocca, che credo abbia centrato perfettamente il nucleo del problema.

“Dalla base al vertice bisognerà fare delle scelte meritocratiche, e non tanto di persone allineate; persone sicuramente disposte a condividere il progetto, ma anche libere di criticarlo, ovviamente costruttivamente, durante il suo svolgimento, in modo da apporre le giuste correzioni in corso d’opera. Persone disposte a sacrificarsi in prima persona per il bene del Movimento, a discapito dei Club di appartenenza – una vera e propria classe dirigente federale. 

Ovviamente persone preparate e non improvvisate. 

Ci sono abbastanza persone in Italia disponibili per coprire tutti i livelli indicati?”