La notizia passò quasi inosservata nel Maggio
del 2002 sui giornali italiani. Pat Tillman, un oscuro ed enigmatico difensore
del campionato professionistico americano di football, rinuncia ai rimanenti due
anni di un contratto triennale da 3.6 milioni di dollari con gli Arizona
Cardinals e passa agli U.S. Army Rangers. Il lettore disattento avrà concluso
che si trattasse di una qualche transazione tra squadre NFL.
Quello che Tillman avrebbe lasciato sul piatto
sarebbero stati un milione e centottantadue mila dollari annui (la differenza
tra il suo stipendio da strong safety e quello da soldato), successo, una
giovane moglie e, in ultima analisi, la sua stessa vita. L’ex alunno di Arizona
State University è infatti scomparso, come probabilmente voi tutti sapete, in
uno scontro a fuoco a seguito di una imboscata, giovedì scorso in qualche remoto
e pietroso angolo dell'Afghanistan sud-orientale. A 27 anni.
Al di là di una decisione sorprendente,
sconcertante, ma indubbiamente coraggiosa e, soprattutto, dell’uso giornalistico
(per non dire, purtroppo, sensazionalistico e propagandistico) che ho visto
attribuirgli in questi giorni, c’era un uomo che la logica l’ha sempre
combattuta e vinta. E un uomo che ha creduto nei propri ideali e combattuto per
essi. Fino al punto di arrivare alle conseguenze più estreme. E questa,
comunque, è la cosa più importante.
Come quando nel gennaio 1997 guidò la poco
considerata squadra dei Sun Devils ad un passo dal titolo NCAA. Una ricezione da
touchdown di David Boston ad una manciata di secondi dalla fine dall’edizione di
quell’anno del Rose Bowl diede a Ohio State la vittoria, a Florida il titolo
nazionale e vanificò uno scramble da TD di Jake Plummer su una situazione di
terzo e undici a 1:40 dalla fine che sembrò aver proiettato Tillman e ASU dal
nulla fin sulla vetta del football universitario. Per la cronaca, quella è stata
finora l’ultima partita tra college trasmessa in Italia.
O come quando giocando come linebacker,
drammaticamente sottotaglia con 178 cm e 91 kg addosso, venne eletto difensore
dell’anno nella PAC-10 per il 1997 e guadagnò un posto nel Second-Team
All-America. Introverso e taciturno, la sua era una leadership basata
sull’esempio e sui fatti, non sulle parole. Lento come safety e piccolo come
linebacker, ma dotato di eccezionale istinto e dedizione, era un fulgido esempio
di come il solo talento non sempre basti a spiegare un giocatore. Non agli scout
NFL, però.
In una intervista a Sports Illustrated gli
venne chiesto quante ripetizioni fosse in grado di eseguire con 100 chili alla
panca orizzontale, un test tipico per i prospetti NFL. Tillman candidamente
ammise: “Quante volte? Io faccio 100 chili di massimale. Poi rimetto giù il
bilanciere”.
Tillmann andò ad un passo dal non essere scelto
nel draft dell’aprile del 1998 al termine della sua carriera universitaria
conclusasi, sempre per la cronaca, con risultati accademici altrettanto
esemplari: una laurea summa cum laude in Marketing.
L’ex Sun Devil ristagnò fino alla chiamata numero duecentoventisei, ovvero la
numero 37 del settimo giro. Venne scelto dai mediocri Cardinals quindici
posizioni prima dell’annuale “Mr. Irrelevant” (il titolo attribuito all’ultimo
giocatore selezionato). Quella del settimo giro è in genere gente che resta nei
roster NFL dai due a cinque mesi e viene, con poche eccezioni, tagliata prima
dell’inizio della stagione successiva.
Quello che gli scout, coi loro metri, bilance e
cronometri, non videro, fu invece subito chiaro a Vince Tobin e al suo staff.
Tillman non solo resistette ai tagli ma, già in quell’anno da rookie, fu
nominato strong safety titolare in 10 partite su 16, lasciando un ricordo
indelebile in compagni, avversari e tifosi con il suo gioco fatto di impegno,
intensità, coraggio, desiderio e intelligenza. E cioè quello di cui qualunque
giocatore, e uomo, dovrebbe essere fatto.
Il 2000 fu il suo anno migliore. Ruppe il record di placcaggi in una sola
stagione della squadra (224, quasi uno per ciascun giocatore scelto prima di
lui). I grossi nomi di John Lynch (85 placcaggi) e Robert Griffith (103) vennero
invitati al Pro Bowl. Gli stessi numeri che lo sfavorirono in sede di draft, non
lo aiutarono in questa occasione. Ma lui i numeri non li ha mai guardati.
Nell’estate dell’anno successivo, infatti,
rifiutò una più remunerativa offerta dei Rams per restare in Arizona coi
Cardinals. Si, quei Rams campioni del mondo del 1999 e avviati ad un’altra
apparizione nel Superbowl al termine di quella stagione 2001. E si, quei
Cardinals, reduci dall’ennesima campagna perdente della loro storia. Questione
di principio.
Poi, verso la fine dell’estate, gli avvenimenti
da li in poi codificati come 9/11, cambiano per sempre la sua percezione delle
cose e la sua scala di valori. Sei mesi più tardi, Tillmann entra nell’ufficio
di Dave McGinnis, head coach della franchigia dell’Arizona. Quando ne esce, i
Cardinals hanno un vuoto da colmare nella posizione di strong safety. Ed uno
ancora più grande nei loro cuori.
Da allora l’arruolamento, la missione in
Afghanistan e tutto quello di cui avrete letto sui giornali.
L’atleta, lo studente e il soldato hanno sempre
e comunque assolto i loro compiti, perché il denominatore comune di questi
aspetti, l’uomo, non avrebbe permesso altrimenti. Possano il suo ricordo e le
sue gesta ispirare tutti noi.
In memoria di Patrick Daniel Tillmann 1976-2004
T.K. Mann