Con gli svedesi al Vigorelli
completato il Grande Slam
Lions Bergamo35 vs Stoccolma10 (0-3; 14-7; 7-0; 14-0)
Anche l'ultima partita è nel segno di Tyrone Rush: è legato infatti alle
corse dell'asso statunitense l'allungo decisivo degli Europizzi Lions
Bergamo nella finale di Champions League giocata sabato sera al velodromo
Vigorelli di Milano contro gli svedesi dei Mean Machine Stoccolma.
Proprio due corse di Rush nell'ultimo quarto (da 3 e 25 yard, entrambe
trasformate dai calci da un punto di La Fata) hanno infatti chiuso
definitivamente a favore dei Lions una partita che fino ad allora era
stata estremamente combattuta. Gli svedesi erano andati in vantaggio
subito con un field goal (calcio da tre punti) di Danielsson, che restava
l'unica segnatura di tutto il primo quarto. Nel secondo parziale i Lions
andavano a segno con una corsa da 5 yard di Bucciol (punto addizionale di
La Fata) e con una spettacolare combinazione aerea da 88 yard (anche
questa trasformata da La Fata) fra Bucciol (che lanciava) e il ricevitore
Soresini (che andava in end zone). Prima dell'intervallo però i Mean
Machine si riportavano sotto con un touch down di Santos, trasformato da
un punto da Danielsson: il parziale a metà gara era così di 14-10. Nel
terzo quarto i Lions allungavano con una ricezione da 16 yard di Thomas
Verzeri (lancio di Bucciol, calcio da un punto di La Fata), e nel quarto
arrotondavano con i due touch down di Rush. «All'inizio - spiega il coach
dei Lions Carlos Barocio - gli svedesi ci hanno messo in grossa
difficoltà perché giocavano in modo da non fermare il cronometro,
facendo scorrere velocemente il tempo e tenendo fuori dal campo il nostro
attacco. Poi però alla lunga abbiamo preso il nostro ritmo, e abbiamo
giocato il football che sappiamo giocare». Quello che ha portato i Lions
a essere i numeri uno in Europa.
«Per i Lions il bello comincia
adesso»
Barocio: «Ora tutti sanno chi siamo. E d'ora in poi ogni partita sarà
una finale»
«Finalmente è finita. È tutto quello che riesco a dire. Certo, se è
finita solo ora è perché siamo arrivati fino in fondo su tutti i fronti.
Ma adesso voglio tornare a casa, in Messico. E per un po' guardarmi il
football come uno spettacolo, non come un lavoro».
È più stanco che felice, Carlos Barocio, il giorno dopo la vittoria che
ha proiettato gli Europizzi Lions Bergamo nella storia del football
americano europeo. L'allenatore messicano, 34 anni, formazione tecnica
statunitense e un ottimo passato da giocatore con New Mexico State, non
era atteso da un compito facile quando arrivò nell'inverno scorso. Doveva
dare un volto a un gruppo pieno sì di grandi individualità, ma che
dovevano essere amalgamate e trasformate in una squadra. E soprattutto
doveva vincere: in Italia, dove i Lions dovevano mantenere la leadership,
e in Europa, dove dovevano conquistarla dopo anni di delusioni.
Lui ha preso i suoi campioni (italiani, canadesi, statunitensi, messicani)
e ha messo subito le cose in chiaro. Parlando a ognuno nella sua lingua,
giusto per evitare malintesi. Sì perché Barocio, oltre a essere un
maestro della palla ovale, parla alla perfezione tre lingue. E se si
considera che due di esse (spagnolo e inglese) sono le più diffuse al
mondo, si spiega perché questo messicano dal carattere allegro e solare
di mondo ne abbia visto parecchio, da quando ha preferito mettere a frutto
la sua passione e la sua profonda conoscenza del football piuttosto che un
titolo di studio in informatica che gli avrebbe garantito un lavoro sicuro
dalle sue parti.
Stagione finita, missione compiuta. Che fa ora Carlos Barocio?
«Se ne va a casa, a Monterrey. E per un po' non vuole più sentir parlare
di football. Potrei allenare là, la stagione comincia a settembre e i
tempi si combinano bene con quelli italiani. Gli altri anni facevo così,
ma quest'anno non credo. Una bella vacanza, poi comincerò a lavorare come
traduttore. E a godermi il football da appassionato, andando a vedere un
po' di partite di Nfl o di college». E tornerà a Bergamo?
«Ne parlerò in questi giorni con la società, ma è questione di
dettagli. Voglio tornare, abbiamo appena cominciato un discorso, il bello
arriva adesso». Sarebbe a dire?
«Che ora tutti in Europa sanno chi sono i Lions. E l'anno prossimo ogni
partita contro di noi sarà un Superbowl per chi la gioca. Questo renderà
tutto molto più difficile per noi, ma anche molto più bello. Sono
orgoglioso di quello che abbiamo fatto». Ma un messicano come si trova
nella fredda Bergamo?
«Benissimo. La città mi piace moltissimo, e la gente pure. Avevo sentito
dire che i bergamaschi fossero gente chiusa, fredda. Beh, quelli che ho
conosciuto io sono l'esatto opposto. E quando vedono che sei straniero
noto in tutti una gran voglia di parlare, di comunicare». Per una
stagione così è difficile trovare persino un aggettivo. Lei come la
definirebbe? «C'è poco da dire. È stata una grande gioia per tutti noi:
giocatori, allenatori, dirigenti, collaboratori, tifosi. Ognuno ha fatto
il suo, e solo quando ognuno fa il suo arrivano i grandi risultati.
Avevamo una grande responsabilità, la società aveva investito tanto per
i suoi obiettivi. Non potevamo fallire. Non abbiamo fallito». Il momento
più bello?
«La vittoria nell'Eurobowl. Andare a vincere ad Amburgo davanti a 20 mila
persone è stata un'esperienza indimenticabile. Ma il vero Eurobowl, in
fondo, l'avevamo già vinto contro Colonia. È stata la sfida più
difficile dell'anno, la vera finale. Contro Amburgo non è stata così
dura». E gli altri trofei?
«Lo scudetto per me è molto importante. Ne avevo vinti due in Spagna,
con i Badalona Dragons, ma in Italia allenando Palermo non ci ero mai
neppure arrivato vicino. La Champions League è una manifestazione che
deve crescere: senza i tedeschi non ha senso, come livello medio sono loro
i più forti d'Europa. Nel giro di qualche anno Eurobowl e Champions
League sembra siano destinate a fondersi in un unico grande campionato
europeo. E allora se ne vedranno delle belle». Ma quanto è stato
difficile motivare i giocatori dopo che il successo più importante (l'Eurobowl)
era già arrivato prima degli altri? «Non è stato difficile, sono gente
seria. È stato invece difficile combattere contro la stanchezza,
soprattutto mentale».
Piero Vailati |